Dott. Giammario Mascolo

Un caso trattato con successo: donna con bulimia

Quando il lavoro alimenta il problema

Vorrei arricchire questo breve excursus sulla terapia breve strategica, mostrando attraverso casi realmente trattati con questa tecnica, quali potenzialità essa può presentare se utilizzata nel modo giusto. Vorrei dimostrare ciò che si intende per “Comprensione del Sistema Percettivo-Reattivo” e per “Sblocco delle tentate soluzioni” e come spesso il problema presentato può essere guardato da un punto di vista diverso da quello comune, consentendo così un nuovo ventaglio di azioni possibili su di esso.

Questa donna viveva attanagliata dal suo problema da moltissimi anni, avendo tentato diverse strade terapeutiche.
Giunge in terapia una donna sulla quarantina, visibilmente in sovrappeso. Come sempre succede nell’approccio strategico, il terapeuta esordisce chiedendo per quale problema essa abbia deciso di chiedere aiuto. (Tal volta, anche quando appare banale, questa domanda apre scenari che si rivelano poi indispensabili per la costruzione del lavoro successivo).

La donna dice di avere un forte problema col cibo, ammette che il suo problema “non è la fame, ma la voglia di mangiare”. Quasi per autopunirsi, lavora da qualche anno in una pasticceria dove, dice, è circondata dalle tentazioni. Prima aveva lavorato in una rosticceria. È separata dal marito e afferma di aver visto accentuarsi il suo problema dopo la rottura del matrimonio, anche se era comunque presente anche prima. Il momento della separazione sembra essere stato un momento di distacco su molti fronti, ha fra l’altro interrotto una psicoterapia che andava avanti da sei mesi.

A questo punto il terapeuta indaga gli aspetti relazionali della paziente (è infatti noto che nel trattamento dei disordini alimentari, grande importanza riveste l’aspetto relazionale).
La domanda del terapeuta verte sull’esistenza di storie sentimentali nella vita della paziente. Ella risponde di avere una “Mezza storia”, ma che questa non riesce a decollare perché “C’è sempre qualcosa di mezzo”: prima un viaggio in Egitto nel quale ha conosciuto un uomo del posto, poi una sera non si ricorda di aver portato con sé il preservativo rifiutando di conseguenza gli approcci sessuali dell’altro...

“Insomma”, il terapeuta incalza “c’è sempre qualcosa da frapporre fra lei e la relazione con l’altro, come se non bastasse la ciccia”. Questa frase sembra colpire la paziente che, dopo qualche attimo di riflessione, risponde di essere una che mette continuamente barriere e dice: “Chi mi vuole mi deve volere molto”. Il terapeuta ristruttura questa situazione paragonandola a quella di un carciofo: “Io amo definire questa come la sindrome del carciofo – che protegge il suo cuore tenero e dolce con tanti strati di foglie amare e piene di aculei”. (Questa dinamica relazionale compare spesso nei pazienti bulimici, confermandosi poi allorché, usciti dalla bulimia, essi devono imparare a vivere le relazioni in prima persona e senza fuggire).
La donna risponde che in effetti la ciccia è brutta, però “è una bella armatura”. Tuttavia, se qualcuno l’accetta così com’è, lei si rende conto di essere la prima a non accettarsi...

Qui il terapeuta coglie l’occasione per utilizzare una risposta che ha dimostrato grande efficacia con questo tipo di pazienti: “Certo, perché è una schifosa palla di lardo”. (Al contrario di quanto può apparire, una frase del genere ha forte presa su una paziente bulimica, perché la fa sentire per la prima volta veramente capita; finalmente qualcuno dice di lei quello che lei stessa pensa da sempre e che nessuno ha mai avuto il coraggio di dirle).

La paziente dice di aver tentato diverse diete, oltre alla psicoterapia precedente, è riuscita ad avere qualche sporadico periodo di dimagrimento, ma per mai più di un mese.
Alla richiesta di quanti chili vorrebbe perdere, risponde di essere 114 Kg e volere arrivare a 75. Il suo peso forma sarebbe 55, ma nei brevi periodi di dimagrimento si è accorta che sotto i 70 il suo viso diventa troppo allungato e col mento troppo grosso. (È un dato di fatto che chi è abituato a vedersi grasso, nonostante non ami il suo corpo, trova molto più difficile abituarsi a vedersi magro).

Avendo assunto abbastanza dati per i passi successivi, il terapeuta passa ad esplicitare le regole del trattamento. (È bene notare che, ai fini di un approccio strategico, nessuna o scarsa importanza hanno le vicende passate del paziente, e gli eventi che egli ritiene all’origine del suo problema. Questo perché la comprensione del Sistema Percettivo-Reattivo necessita esclusivamente di una indagine accurata sul qui ed ora, sufficiente per sapere come funziona e come si autoalimenta il problema). Tale indagine, effettuata con tecniche e mezzi appropriati, esclude praticamente del tutto le domande sul passato.
(L’accordo sulle regole del trattamento ha un ruolo cruciale nella Terapia Strategica, perché appare come un contratto formale, ma in realtà si avvale di quella che gli studiosi della comunicazione hanno definito “Tecnica del Doppio Legame”. Si tratta in pratica di porre il paziente in una situazione per la quale dovrà necessariamente seguire le indicazioni terapeutiche, se non vuole trovarsi in conflitto con sé stesso.)
Il terapeuta dice: “Credo di aver capito abbastanza del suo problema per cominciare a trattarlo. Devo dirle che normalmente questi problemi si risolvono nel giro di cinque o sei sedute, ma non so se sarà il suo caso.
– In che senso?
– Nel senso che, se chi l’ha mandata da me non glielo ha già detto, io do degli esercizi da svolgere a casa nel periodo in cui non ci vediamo. Si tratta di cose non impegnative, ma tal volta appaiono banali, illogiche, bizzarre. Però vanno eseguite alla lettera. Solo dopo le darò le spiegazioni. L’altra regola è che ci diamo solo dieci sedute di tempo, non una di più. Se in dieci sedute non vediamo risultati, allora interrompiamo. Se non riesco a fare niente in dieci sedute, non ci riuscirò neanche in cento. Le ripeto che di solito problemi come il suo si sbloccano in molto meno, ma non so se sarà il suo caso”.
La paziente sembra cogliere il senso delle parole ascoltate e commenta: “Una sfida...”
A questo punto il terapeuta passa ai tre compiti che lei dovrà eseguire nei giorni successivi che li separano dalla prossima seduta.

  • Il primo compito è una fantasia da fare ogni mattina. La paziente dovrà immaginare di essere stata da una specie di stregone che per incanto ha fatto scomparire il suo problema. Come sarebbe allora la sua vita, cosa ci sarebbe di diverso e di nuovo? Quali sarebbero i nuovi problemi che emergerebbero? (Questa prescrizione, inaugurata da Steve De Shazer è denominata “Fantasia del Miracolo”, risulta utilissima per proiettare il paziente in uno scenario al di là del suo problema.)
  • Il secondo compito è quello di pensare durante la giornata di essere allo stesso tempo come un carciofo che protegge il suo cuore tenero, e come una schifosa palla di lardo che rotola. A questa prescrizione la paziente commenta “Beh, questo mi riesce abbastanza facile”.
  • Anche il terzo esercizio è un pensiero da fare ogni giorno, ed è stato denominato “Pensare all’utilità del sintomo”. Il terapeuta invita la paziente a chiedersi quale utilità può avere nella sua vita l’essere così attaccata al cibo, perché ogni fenomeno in natura ha una sua utilità che lo fa perdurare nel tempo, e anche la mente umana, in quanto entità naturale, deve funzionare in questo modo. (La prescrizione dell’utilità del sintomo è spesso utilizzata per portare il paziente a pensare sul suo modo di pensare, in pratica si punta a far in modo che egli scopra i meccanismi perversi che mantengono il disturbo in vita).



Alla seconda seduta la donna arriva con un bel taccuino per gli appunti. Dice che le è riuscito facile pensare di essere una palla di lardo e un carciofo, e che questo l’ha aiutata negli altri due compiti. Se il suo problema sparisse, probabilmente verrebbe fuori una sua difficoltà a gestire le tensioni. Non ci sarebbe più “Il grasso a proteggermi” e allora non saprebbe come relazionarsi agli altri. Adesso, infatti, si accorge di essere molto libera e schietta nel parlare, e teme che dopo non potrebbe esserlo più. Ritiene che, scomparso il problema del cibo, probabilmente si darebbe al sesso sfrenato, e questo le porterebbe grossi problemi di moralità. È giunta quindi alla conclusione che l’utilità del suo problema sta nel difenderla dalle relazioni troppo strette e nell’avere una scusa per ritrarsi agli altri. Persino l’abbraccio di un uomo è per lei ripugnante, perché quell’abbraccio trova solo grasso, e se il problema non ci fosse più questa motivazione non avrebbe più senso.

Il terapeuta, dopo essersi complimentato per lo svolgimento degli esercizi, chiede come è andata col cibo. La paziente afferma di aver sentito meno forte l’attrazione per il mangiare, ma di non essere dimagrita.
Scatta a questo punto la seconda fase della terapia, quella che i terapeuti strategici definiscono “Sblocco”. Il terapeuta afferma: “Visto che non sei riuscita a dimagrire, mi chiedo quanto ancora potresti ingrassare prima di cominciare a dimagrire. Per questo motivo ti darò un compito che riguarda direttamente il cibo”. Il compito in questione si basa sull’antico stratagemma cinese dello Spegnere il fuoco soffocandolo con l’aggiunta di legna.

“Ora ti sceglierai una dieta non troppo rigida, diciamo sopra le 1000-1200 calorie, è inutile che io te ne fornisca una perché tu sei sicuramente bravissima con tutte le diete che hai fatto. Al di fuori di quella dieta, però, ogni volta che mangi qualcosa, la devi mangiare per cinque volte: se mangi un cioccolatino, cinque cioccolatini, se mangi un pezzo di torta, cinque pezzi di torta... Puoi non trasgredire per niente, ma se fai una trasgressione ne farai cinque.” (Questa prescrizione ha effetto praticamente garantito in tutti quei pazienti che basano le loro tentate soluzioni sul controllare il proprio comportamento, con il risultato che più controllano e più perdono il controllo).
Vista la forte valenza relazionale del disturbo in questa paziente, il terapeuta dà poi una seconda prescrizione, definita come “L’epistolario notturno”. Ogni sera ella dovrà prendere carta e penna e, come ultima azione della giornata, sul suo cuscino, scrivere una lettera a lui, mettendoci dentro quello che vuole, cominciando però sempre con le parole “Caro Dottore”. (Questo esercizio ha un valore squisitamente relazionale perché punta al recupero delle capacità di interazione intima della paziente, sotto la rassicurante guida terapeutica).


Alla terza seduta la paziente riferisce di essere riuscita a perdere due chili nell’ultima settimana. Aggiunge poi di aver “odiato” il terapeuta, perché con la prescrizione del “Se fai uno fai cinque” era riuscito a trasformarle il suo unico piacere in una “Frustrazione”. Adesso ogni volta che le veniva voglia di mangiare, si fermava perché pensava che ne avrebbe dovute mangiare cinque. Il terapeuta commenta “Il dispiacere per il peso che prenderai mangiando cinque volte è più forte del piacere che proveresti”. Così in questa settimana solo una volta ha mangiato per cinque, quando aveva voglia di cinque mandorle, e allora ne ha prese 25. Un’altra volta si è accorta di volere latte e biscotti, allora ha mangiato cinque biscotti, ma ha sostituito questo con la cena.

Il tono della donna appare molto più confidenziale e più emotivo, sia quando esprime le sensazioni che le vengono dalle prescrizioni, sia quando racconta di un “Colpo di fulmine” capitatole a lavoro. (Risulta evidente il recupero relazionale già in atto, anche se ancora in embrione). Dice inoltre di aver sognato molto e di aver ricevuto i complimenti dalla sua dietista. A queste parole, tuttavia, il terapeuta risponde che è meglio tenere distinto il suo lavoro da quello della dietista, perché sono due cose che prendono il problema da due punti di vista completamente diversi. Per ora, dunque, è meglio che lei non racconti a nessuno dei due quale lavoro sta svolgendo l’altro, se sarà necessario egli sentirà personalmente la collega.
La seduta si conclude con la conferma dei due compiti prescritti in precedenza, modificando solo leggermente alcuni dettagli per adattarli alla persona e alle sue sensazioni.


Questa paziente proseguì il suo trattamento avendo ormai sbloccato l’empisse dell’atteggiamento bulimico. Si trattò di lavorare, come già previsto, sulle relazioni e sul recupero della sua seduttività femminile fino ad allora rimasta sopita sotto centimetri di ciccia. Mai più, neppure nel periodo di follow up (Sei mesi, un anno e due anni dopo il termine della terapia) si presentarono in lei disordini alimentari.

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