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Dott. Giammario Mascolo

Blocco nello studio, un caso clinico trattato con successo

La perfezione, un bel problema.

Era la più brava della classe. La numero uno. Colei in cui tutti confidavano per avere gli appunti delle lezioni. La prima, durante compiti in classe, a passare di nascosto ai compagni la propria versione corretta.
Il ruolo le era riconosciuto anche dalle insegnanti che per questo l’avevano elevata a loro collega, dandole saltuariamente da correggere i compiti degli alunni meno bravi e indicandola di continuo quale studentessa modello.

Un giorno però l’incantesimo si ruppe: la ragazza consegnò la versione di greco in bianco; aveva tradotto solo le prime tre righe, e fra l'altro male.

Stupefatta, la professoressa le disse che, se si fosse trattato di un qualsiasi altro studente, non avrebbe esitato un momento a darle un brutto voto. Ma trattandosi di lei per questa volta avrebbe chiuso un occhio, anche se trovava la cosa inspiegabile.

Con atteggiamento compassionevole l’insegnante aggiunse di non preoccuparsi, assicurandole che al compito successivo le avrebbe concesso più tempo degli altri. E così fu. Ma i successivi compiti in classe di greco e latino furono disastrosi. Nel giro di qualche mese la ragazza era diventata per le insegnanti un caso indecifrabile: da studentessa modello a "trottola impazzita". A volte riusciva, a volte si bloccava. Il tutto era condito da vere e proprie scene drammatiche con pianti, suppliche, richieste di perdono.

Dopo un’accurata indagine in presenza dei genitori, fu evidente che le difficoltà della ragazza erano un connubio perfetto tra le sue esigenze di controllo (dare il meglio di sé, valorizzare la sua intelligenza) e le tentate soluzioni delle insegnanti che, nel caso in questione, consistevano nel porre l’alunna al loro stesso livello, darle responsabilità che non le competevano, presentarla come modello da imitare. Un caso esemplare di "trattamento differenziale".

Inoltre, alle prime difficoltà della ragazza, la tentata soluzione delle insegnanti si era fatta ancora più radicale (darle più tempo, chiedere spiegazioni sui presunti problemi nascosti che la tormentavano, incitamenti a recuperare il meglio di sé) trasformando il trattamento privilegiato in un intervento di sostegno. Insomma, per una ragazza così capace e orgogliosa tutto ciò equivaleva a ricevere una dose tossica di insana misericordia!

I genitori riportarono inoltre che i suoi problemi erano diventati l’argomento di discussione «più gettonato» di cui parlare in famiglia. Il padre e la madre la interrogavano ogni giorno appena tornava a casa chiedendole se era andato tutto bene o se avesse avuto problemi di qualche tipo. La incoraggiavano, le chiedevano di parlarne e di sfogarsi, e le consigliavano amorevolmente di non preoccuparsi!

Indagando più nel dettaglio come si manifestasse il blocco, la ragazza riportò che il problema emergeva soprattutto nelle situazioni in cui sentiva di dover dare il meglio di sé. I compiti in classe di greco e latino erano infatti il prototipo dei momenti in cui andava maggiormente in tilt. Profondeva enormi sforzi nel tentativo di fornire «la migliore delle traduzioni possibili»: la più corretta dal punto di vista grammaticale, filologico e, perché no, anche poetico. Purtroppo, quello che poi praticamente si innescava era un meccanismo diabolico: più cercava sui dizionari di greco e latino il significato autentico, profondo ed ermeneutico di ogni singola parola, più si confondeva, vedeva il tempo scorrere, e presa dalla disperazione finiva col rinunciare. La traduzione «diabolica» si era ripetuta già diverse volte ed era il principale motivo per cui la famiglia si era rivolta al terapeuta. Era dunque evidente che il problema della ragazza ruotava attorno al meccanismo del blocco perfezionistico, ed era alimentato sia dall’orgoglio personale che dalle aspettative riposte in lei dalle insegnanti.

Il lavoro terapeutico fu da subito impostato in questa direzione. Attraverso il dialogo fu proposto alla giovane un nuovo modo di vedere il suo «impeto» perfezionistico: «Immagina di esser diventata una filologa professionista e di dover insegnare alla tua classe di alunni l’arte della traduzione perfetta: come procederesti? Li spingeresti a cercare il significato più profondo di ogni parola, oppure diresti loro che le parole acquistano significato solo accanto ad altre parole, cioè nel loro contesto?» Lei annuì alla seconda alternativa. Allora il terapeuta proseguì dicendole: «Esatto. Per cui il modo migliore per incepparsi sarebbe proprio quello di focalizzarsi sulle singole parole, senza tener conto della frase, del periodo, del paragrafo… dell’intera versione. Se vuoi diventare ancora più brava nel tradurre dovrai partire da qui: da una prima traduzione ‘apparentemente’ imperfetta, che poi sarai in grado di migliorare. Ergo: la prima traduzione è quella giusta!»

Si concordò che d’ora in avanti avrebbe impostato le sue traduzioni seguendo questo «strano» ma ora più comprensibile principio del «buona la prima». Poi, ma solo alla fine, avrebbe potuto rileggere la traduzione e correggere le frasi per renderle più comprensibili e più poetiche.

Le fu inoltre chiesto di condurre un piccolo esperimento giornaliero. Durante lo studio avrebbe dovuto dedicare dieci minuti all’inizio del pomeriggio per esercitarsi a sbagliare, svolgendo ad esempio in modo deliberatamente erroneo una dimostrazione matematica, o inserendo un termine sbagliato nelle sue traduzioni, oppure facendo finta di scambiare una data per un’altra ripetendo un paragrafo di storia, ecc. Le fu spiegato che ciò le avrebbe permesso di immunizzarsi dalla possibilità di commettere errori imprevedibili: se conosco tutti gli errori possibili, ho meno probabilità di commetterli. «Il diavolo è nella perfezione».

Ai genitori fu invece prescritta la congiura del silenzio sulle difficoltà scolastiche della figlia.
Sulla porta, prima di salutarli, il terapeuta si rivolse un ultimo istante a Filomena: «Che gusto, eh? Regalare le perle…» e volutamente non chiuse la frase.

Quando tornarono all’incontro successivo, i genitori riferirono di aver enormemente «allentato la presa». Avevano rivolto meno attenzione del solito ai risultati scolastici della ragazza ed evitato di chiederle resoconti giornalieri. Dopo alcuni giorni di «silenzio stampa» sull’argomento, era stata lei stessa a parlarne raccontando l’esito di due compiti in classe appena svolti, uno di greco, l’altro di italiano. Riferì di aver consegnato entrambi gli scritti con largo anticipo rispetto ai compagni e di averli fatti «di getto». Aveva preso sette in italiano e otto in greco.
Durante il compito di greco aveva inoltre ignorato le richieste di suggerimenti dei compagni e, una volta consegnato il compito, aveva chiesto il permesso di uscire dall’aula.

Fu sempre lei a riferire d’aver eseguito l’esercizio che le avevo proposto. Purtroppo, questo non aveva avuto nessun effetto benefico: eseguendolo, si accorse che sapeva già quali errori commettere, quindi le sembrava una perdita di tempo.

Il terapeuta rispose che non sempre possiamo pretendere di avere la botte piena e la moglie ubriaca. E aggiunse, un po’ preoccupato, che dopo questa «sbornia» di voti, «tutto diventerà più difficile, non credi?» Lei gli rivolse uno sguardo perplesso. «Sai» insistette il terapeuta, «ora loro pretenderanno da te sempre di più… e per te saranno guai. Per questo, avrei tanto preferito che tu prendessi due semplici sufficienze… però è anche vero che i purosangue vanno lasciati liberi di correre… anche se c’è chi li vorrebbe domare». L’osservazione ebbe su di lei l’effetto di un’improvvisa illuminazione.

Dopo qualche secondo di riflessione rispose: «Sì, in effetti mi fanno parecchie pressioni… le professoresse».

«Be’, un modo ci sarebbe… ma non so se tu sei in grado di farlo. [pausa] Si tratterebbe di ‘riaddestrarle’ a considerarti come una studentessa molto brava… ma non così brava da dover dimostrare di essere sempre la più brava: così non c’è gusto, se non sei tu a scegliere. Però, ti ripeto: è molto difficile da fare. [pausa] Forse dovremmo chiedere ai tuoi genitori di farlo al tuo posto, e di andare a parlare con le insegnanti per convincerle a trattarti come una normale studentessa».
A quel punto il papà intervenne con entusiasmo: «Non c’è problema, ci vado io e gli spiego che devono cambiare attegg…», ma non fece in tempo a concludere la frase. La ragazza lo fulminò con lo sguardo. «No. No, non è necessario, così è peggio. Posso farlo io» ringhiò.

«Va bene» le fu detto, «però teniamoci comunque aperta questa possibilità: se tu non ci riesci, avremo bisogno dell’intermediazione dei tuoi genitori. Tanto voi siete già d’accordo, vero?! [rivolto ai genitori]».

Alla seduta successiva la ragazza iniziò a parlare per prima. Si vedeva che qualcosa le ribolliva dentro. Affrontò il dottore con piglio deciso e disse, tutta soddisfatta, che aveva parlato con le insegnanti di greco e latino, di italiano, storia e filosofia.

Il gravoso compito era consistito, con le sue parole, nel «rimetterle in riga» una a una. Con fare da maestrina aveva spiegato a ognuna che aveva attraversato un brutto periodo che ora stava superando, senza dare ulteriori spiegazioni. L’avrebbero aiutata se d’ora in avanti l’avessero «ignorata» trattandola come una studentessa qualsiasi, come le altre. Quindi: basta compiti dei compagni da correggere, basta extratime. Nel caso di voti cattivi, la responsabilità era sua e di nessun altro. Significava che quel giorno non era poi così preparata!

Piacevolmente stupito da tanto coraggio, il terapeuta affermò che quello che aveva fatto era la dimostrazione che da brava bambina si stava trasformando in… ragazza.

I risultati così ottenuti vennero consolidati nelle tre sedute successive, mentre la terapia andava spostandosi su altre cose alle quali la giovane cominciava ad interessarsi, mettendo lo studio al posto che gli spettava: importante ma non esclusivo.

Per la trascrizione intera di questo caso consultare Bartoletti A., Lo studente strategico - come risolvere rapidamente i problemi di studio, Ponte alle Grazie 2013.

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